Mario Monti ha perso tutto il consenso:
Da subito ha messo in pratica, lui varesino, la nobile arte napoletana della ammuina. Prima ha esordito con un «Alla fine del mandato me ne tornerò a fare il professore» che poi, con l’avanzare dei mesi, evolveva in un «Se il paese lo chiede e potrò essere utile…» fino a diventare il 28 dicembre dello scorso anno «Accetterò di incoraggiare lo sforzo congiunto di politica responsabile e società civile nelle forme che saranno definite, accettando di essere designato capo della coalizione o dando il mio impegno per il successo dell’operazione. »
Roba che non si sentiva dai tempi in cui dorotei e morotei impazzavano nella politica italiana. Ma il paragone con i demoni-cristiani finisce lì. Perché quelli mai nella vita avrebbero dissipato il cospicuo vantaggio che a Monti era stato regalato: un indice di fiducia che veleggiava intorno al 70%.
Il suo indecisionismo, la non volontà di scavalcare le obiezioni che politici ormai logori ponevano alle riforme, l’incapacità di prendere dei rischi e soprattutto il timore di rivolgersi direttamente alla gente comune superando la stretta cerchia degli amici l’ha ridotto a ben poca cosa. A questo s’aggiunga il maldestro tentativo di cambiare in corsa il suo posizionamento nella mappa mentale degli Italiani.
Nella testa di tutti Mario Monti era il professore, competente, magari un po’ algido ma capace di stare sopra tutti gli altri politicanti. Severo ma in grado di capire le situazioni, di poche parole perché l’autorevolezza non è fatta di lunghi discorsi da piazzista e poi ciò che conta sono i fatti. A tal punto responsabile da non fare promesse impossibili e soprattutto non autoincensarsi o stare a recriminare. Distante come ovvio e forse come giusto. Senz’altro non uno uguale a gli altri. Quindi un posizionamento unico nel panorama politico italiano.
Scelte discutibili che lo hanno fatto uniformare ai politici:
E invece lui, proprio lui professore dell’università che, almeno in teoria, forma i manager ha deciso di buttare al vento il suo elemento distintivo per apparire all’esatto contrario. Per uniformarsi. Come se ad essere uguale a quegli altri ce ne fosse di vantaggio. Si è messo a fare l’amicone: dall’improbabile soprannome del nipote, alla adozione in diretta tv del cane (copia di Berlusconi) alla conseguente bevuta di birra (copia di Bersani). Si è sempre assolto dando colpe ai politici (una spruzzatina di anticasta). Ha fatto il presenzialista televisivo.
E s’è messo anche a promettere la riduzione delle tasse che lui stesso ha imposto (uno zic di populismo strisciante). Poi già che c’era si è scelto dei compagni di strada, Pierferdinando Casini e Gianfranco Fini, con i quali mai s’é fatto vedere insieme. Roba del tipo siamo amici ma che non lo si sappia troppo in giro. Che la metacomunicazione è: “pronto a scaricarli se conviene”. Sembra la reificazione del proverbio “i piedi in due paia di scarpe”.
Insomma ha cercato di essere uguale a tutti gli altri e ce l’ha fatta imitandone il peggio. Ormai è uguale agli altri. Bel pensiero strategico. Lui che voleva salire in politica è disceso al livello degli altri. E non è certo un bel viaggio. Almeno è stato il primo a votare. Complimenti professore.