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Il rogo di via Bernardo Bibbiena:
La notte è quella del 16 aprile 1973; siamo nel quartiere popolare di Primavalle, periferia nord ovest di Roma. Sono passate le 3 quando un commando di uomini irrompe in via Bernardo Bibbiena 33, al terzo piano; è l’appartamento dove vive Mario Mattei, netturbino di professione e segretario della sezione Msi (Movimento sociale italiano, nato dalle ceneri del partito fascista) del quartiere. Con lui vivono anche la moglie e 6 figli.
Il commando, arrivato davanti alla porta dell’appartamento della famiglia Mattei, la cosparge di benzina dopodiché con un innesco artigianale genera un incendio seguito da un fortissimo scoppio. Le fiamme si propagano ed avvolgono tutta la casa di Mario Mattei, che riesce a salvarsi gettandosi dal balcone: lo seguono due figlie, Silvia e Lucia, e la moglie Anna che fa in tempo a prendere in braccio i due bambini più piccoli, Antonella e Gianpaolo.
All’appello mancano gli altri due figli Virgilio e Stefano, di 22 e 10 anni; sono ancora dentro l’appartamento ormai avvolto dalle fiamme e malgrado i tentativi non riusciranno a fuggire. Nel giro dei pochi minuti bruceranno arsi vivi e i vigili de fuoco sopraggiunti in seguito potranno solo trovare i loro corpi carbonizzati vicino alla finestra. Stretti in un abbraccio,come a cercare di proteggersi l’uno con l’altro.
Puntata del Tg3 dell’ Aprile 1973
Le indagini:
Il brutale delitto scuote l’opinione pubblica e i sospetti portano subito all’attività di segretario della sezione Msi Primavalle di Mario Mattei: tra l’altro anche uno dei due figli morti nel rogo, Virgilio, è militante. E in quegli anni tanto basta per entrare nel mirino dell’opposta fazione.
Si inizia quindi a sospettare che il gesto sia legato ad ideologie politiche contrapposte e la tesi viene confermata da una scritta rinvenuta sotto casa della famiglia Mattei subito dopo il rogo: “Giustizia proletaria è fatta”.
Due giorni dopo la vicenda, il 18 aprile del 1973, viene arrestato quale presunto responsabile un esponente di “Potere Operaio”: si tratta di Achille Lollo, condannato a 2 anni di carcere preventivo.
Processi e condanne:
Due anni dopo, nel febbraio del 1975, si apre il processo: alla sbarra c’è il solo Achille Lollo dato che gli altri due esponenti di “Potere Operaio” ritenuti responsabili con lui del rogo, ovvero Marino Clavo e Manlio Grillo, sono latitanti. L’intero processo fu altamente ideologizzato e usato dalle varie fazioni per portare acqua al proprio mulino.
Il primo grado si conclude con una assoluzione per i tre accusati: insufficienza di prove. In secondo grado la sentenza fu ribaltata ed i tre esponenti di Potere Operaio furono condannati a 18 anni per omicidio preterintenzionale. Per l’accusa furono loro tre ad appiccare il fuoco.
Condanna che fece molto discutere ma che non fu mai attuata: durante l’attesa per il processo di appello infatti, anche Lollo riesce a scappare all’estero, in Brasile. Manlio Grillo era in un altro paese sudamericano, Nicaragua, mentre di Marino Clavo si è persa ogni traccia.
I tre riescono quindi ad evitare l’arresto e, in data 28 gennaio 2005, la Corte d’Appello di Roma dichiara estinta la pena per intervenuta prescrizione: per la legge italiana i tre responsabili del rogo di Primavalle sono nuovamente liberi. Lollo ha anche fatto ritorno in Italia.
Scontri ideologici e confessioni:
La vicenda del rogo di Primavalle ebbe conseguenze sotto tutti i punti di vista: anche quello ideologico. Subito dopo l’arresto di Lollo si sprecarono testimonianze di stima nei suoi confronti da parte di molti intellettuali e giornali che si schierarono apertamente dalla sua parte. Tra questi, anche Franca Rame e Aberto Moravia.
Nacquero veri e proprio gruppi in difesa dei tre arrestati e si iniziò a far girare la voce che il rogo sarebbe stato dovuto ad una faida tra fascisti. Quindi nessun intervento esterno della fazione opposta. Teorie altamente ideologizzate e smentite, anni dopo, dallo stesso Lollo. Il quale nel 2005, dalla sua latitanza in Brasile, confessò nel corso di un’intervista la responsabilità del rogo, seppur fornendo una versione parzialmente diversa della dinamica, confermando al contempo la presenza di Clavo e Grillo.
Per la verità nel corso di quell’intervista Lollo sostiene di non aver materialmente incendiato la porta dell’appartamento della famiglia Mattei: doveva trattarsi di una azione dimostrativa ma poi le cose erano sfuggite dal loro controllo e l’incendio sarebbe quindi stato del tutto estraneo alla loro volontà.
Una mossa strategica che consentì a Lollo di rientrare in Italia dopo anni di latitanza; da uomo libero e senza aver scontato la pena. Esattamente come gli altri due responsabili Marino Clavo e Manlio Grillo.