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I vincoli del Fiscal Compact
I Paesi che hanno sottoscritto il Fiscal Compact hanno diversi vincoli, il primo dei quali è quello di raggiungere il “pareggio di bilancio”. Nel nostro Paese nell’aprile del 2012, venne votata una modifica alla Costituzione, che entrò in vigore il successivo 8 maggio, ma con effetto a partire dal 1 gennaio 2014.
Oltre a questo esiste l’obbligo di non oltrepassare lo 0,5% del Pil per quanto riguarda la soglia del “deficit strutturale”, mentre per i paesi che hanno un debito pubblico inferiore al 60% rispetto al Pil, questa soglia è dell’1%.
Altro obbligo è quello relativo alla riduzione del “rapporto tra debito pubblico e Pil”, che ogni anno deve essere pari ad 1 ventesimo della parte che supera il 60% del Pil. Infine i Paesi firmatari si impegnano a coordinare con la Commissione Europea ed il Consiglio dell’Unione, i piani di “emissione del debito”.
La regola relativa al deficit è quella più contestata e lo stesso ex premier, Matteo Renzi, recentemente ha chiesto di tornare alla percentuale del 3% riguardo al rapporto “deficit/Pil”.
La necessità di avere i conti in ordine
In pratica il Fiscal Compact applica stringenti principi di austerità e si basa sulla convinzione che sia necessario avere i conti di Stato in ordine per poter riconquistare la “fiducia” da parte dei mercati azionari.
Un pensiero che non è condiviso da tutti e per alcuni esperti questa stretta ottiene solo di deprimere le economie. Alcuni economisti hanno stimato che in Italia per ridurre il rapporto “debito/pil” come richiesto dal Fiscal Compact (almeno 1/20esimo ogni anno) si dovrebbe mettere in campo una manovra con un importo tra i 40 ed i 50 miliardi di euro all’anno, e questo per un certo numero di anni.
Altri esperti di economia puntano invece su una strada diversa, cioè l’innalzamento del “numeratore” della frazione, anziché la diminuzione del “denominatore”.
A ulteriore chiarimento di quelli che sono i numeri in gioco, c’è da precisare che il Pil inserito nel conteggio non è il “Pil reale”, ma quello “nominale”, che somma al Pil reale anche l’inflazione.
L’introduzione del Fiscal Compact in Italia
Quando nel 2012, con in carica il governo presieduto da Mario Monti, si effettuarono le votazioni, sia a Montecitorio che a Palazzo Madama espressero parere favorevole tutti i gruppi ad eccezione di quello di “Italia dei valori” e della “Lega Nord”. Ci furono inoltre pochi astenuti.
Il segretario del PD, Renzi, recentemente ha reso nota la sua proposta di “tornare ai parametri di Maastricht”, mettendo di fatto da parte le regole dell’accordo sul Fiscal Compact. Per Renzi si tratterebbe di tornare per i prossimi 5 anni ad un rapporto “deficit/Pil” pari al 2,9%, più basso quindi dei parametri di Maastricht, che prevedevano un massimo del 3%, in modo da rilanciare l’economia.
Una proposta che non è stata fatta propria dall’attuale governo guidato da Gentiloni e con Pier Carlo Padoan come ministro dell’Economia.
La nuova battaglia dell’Italia per modificare il Fiscal Compact
La proposta dell’ex premier è stata “bocciata” anche dalla Commissione Europea e dall’Eurogruppo, ma lo stesso Renzi ha dichiarato di volerla portare avanti.
Questa presa di posizione del segretario del PD, sembra legarsi a quelle che saranno le nuove scelte europee, che potrebbero arrivare dopo le elezioni tedesche del prossimo settembre, quando si profila una conferma di Angela Merkel alla guida della Germania.
Politica italiane e Fiscal Compact
In questi giorni anche i gruppi politici come Lega Nord e M5S, da sempre “antieuropeisti”, stanno spostando le loro mire dall’uscita dall’euro, che sembra non essere assolutamente realizzabile, verso l’uscita dal Fiscal Compact.
Se per questi gruppi la scelta sembra abbastanza facile, non lo è certamente per l’ex premier, da sempre convinto “europeista”, che dovrà quindi trovare gli argomenti giusti per spiegare come l’accordo sul Fiscal Compact deprima le possibilità di crescita dell’Italia.
La difficoltà maggiore sarà quella di “convincere” i partner europei dell’Italia ed anche i mercati azionari riguardo alla “bontà” di una politica pluriennale volta ad una ripresa degli investimenti da parte dello Stato, che porterà ossigeno alle imprese.