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I contrari agli Ogm:
Il ministro Zaia, il patron di Slow Food Petrini, la Coldiretti, i Verdi, Alemanno e ambienti della Chiesa hanno tutti elevato il muro contro l’Europa con il motto: “L’Italia è fermamente contraria”.
Solo poche voci hanno dissentito. Chiamarsi fuori da questo coro di conformisti richiede infatti responsabilità, predisposizione allo studio, rigore, misura: requisiti non molto diffusi specie di questi tempi. Non è valso a nulla che da Bruxelles il direttore generale aggiunto per la tutela della salute dei consumatori, Paola Testori Coggi, avesse immediatamente precisato che “non ci sarebbe stato alcun rischio di veder finire Amflora nel piatto dei consumatori, per il semplice motivo che la multinazionale BASF può vendere i semi ogm solo agli agricoltori che hanno un contratto con un impianto industriale per uso tessile e per la produzione di carta”.
Ma il “no” non ha nulla di razionale, è ideologico. “Se li mangino loro; – ha scritto Petrini su un noto quotidiano – li sperimentino coloro che aspettano con tanta fiducia la loro diffusione nel mondo. Noi rifiutiamoci, rifiutiamo anche solo il minimo rischio: se questo significa disertare i supermercati a favore degli acquisti diretti, gli unici che oggi ci possano dare vere garanzie, facciamo uno sforzo in più. La causa lo vale: oggi la lotta si fa senza armi, ma con la pazienza e qualche volta il disagio di una spesa fatta con attenzione e cura”.
La spesa a chilometri zero:
La lotta a cui ci chiama Petrini è la spesa a “chilometro zero”: si torna all’economia curtense, tanto cara a Carlo Magno, il quale, disperando delle strade del regno e dei conseguenti mezzi di trasporto, rinunciava a fare affluire le derrate verso la reggia, preferendo spostarsi assieme ai suoi fedeli per andare nelle singole aziende a consumare sul posto.
Ora dovremmo andare tutti a fare la spesa in campagna mediante i gruppi di acquisto solidale, i presidii di Slow Food e le società di commercializzazione della Coldiretti, che svolgono certamente una funzione meritoria: quella di sostenere l’agricoltura territoriale a produrre beni pubblici e relazionali, tra cui la freschezza dei cibi e il rapporto diretto tra produttori e consumatori.
Ma è demenziale ritenere le reti locali, senza dubbio da potenziare e diffondere, alternative ai mercati nazionali e internazionali. Hanno, invece, la funzione di rigenerare quel capitale civile locale che oggi scarseggia nelle campagne, prosciugato da una modernizzazione distorta, e che può essere messo a frutto dagli agricoltori per organizzarsi e raggiungere più agguerriti i diversi mercati di sbocco dei prodotti agricoli insieme ai territori: nella globalizzazione competono non solo e non tanto le singole imprese ma i distretti locali.
A realizzare questo cambiamento devono tendere le reti locali non a contrapporre alla globalizzazione il ritorno all’economia curtense. Nelle reti locali ci sono anche produttori che prendono una parte dei semi dal raccolto, li conservano all’asciutto avendo cura di non farli germinare e poi, prima della semina, si industriano a separare i semi buoni dai semi cattivi. Rendono in tal modo un servizio prezioso alla popolazione perché salvaguardano la biodiversità. Ma questa pratica non si può estendere a tutta l’agricoltura perché l’acquisto dei semi dall’industria sementiera garantisce che questi siano migliori, selezionati, esenti da virus e produttivi.
Agricoltura transgenica e rivoluzione:
Le colture tradizionali e i prodotti tipici sono frutto di innovazioni dovute all’impegno di produttori, industria sementiera e centri di ricerca pubblica. Il pomodoro pachino non è un prodotto arcaico ma un incrocio fatto in laboratorio in Israele e approdato nei primi anni Ottanta in Sicilia. E senza mutazioni genetiche oggi non avremmo il grano Creso, che andrebbe ulteriormente geneticamente mutato dal momento che non raggiunge la giusta quantità di proteine per avviare la panificazione.
Questo difetto ci costringe a comprare grano dal Canada che è più ricco di proteine non perché lì vi siano particolari condizioni naturali ma per il semplice motivo che in quel Paese credono al miglioramento genetico e al futuro. La rivoluzione agrobiotecnologica è iniziata soltanto una ventina di anni fa, ma le nuove conoscenze scientifiche accumulate in questi due decenni sui genomi vegetali, sulla regolazione e sull’espressione dei geni sono talmente impressionanti che oggi si guarda alla prima pianta di tabacco ogm come se appartenesse alla preistoria.
Ogni mese le riviste scientifiche annunciano il sequenziamento del genoma di qualche nuova specie. Conosciamo già nei dettagli per esempio il genoma del riso e quello della vite, e presto avremo quelli della patata, del pomodoro e di molte altre piante. Queste informazioni, spesso accessibili a tutti i ricercatori tramite il web, sono destinate a rivoluzionare l’agricoltura transgenica.
Ogm: paura dell’innovazione?
Non si deve aver paura dell’innovazione: gli ogm possono permetterci di aumentare la biodiversità agricola, di ridurre l’uso dei fertilizzanti, di fronteggiare i cambiamenti climatici con nuove colture meno dipendenti dall’acqua e quindi resistenti alla siccità.
Nel nostro Paese non solo non si fa più ricerca sugli ogm da un decennio ma tale argomento è diventato un tabù, mentre la nostra storia alimentare è stata da sempre il frutto della contaminazione fra tradizione e innovazione: le radici non hanno mai costituto un feticcio, le comunità non si sono mai blindate contro lo straniero; e questo perché la scienza tende da sempre a integrarsi coi saperi contestuali, l’identità si riconosce nell’alterità e l’ospitalità è più antica di ogni frontiera.