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Il disastro ambientale dell’Ilva:
L’accusa per gli industriali e per tutti i collaboratori del cosiddetto governo ombra che dirigevano le operazioni all’interno degli stabilimenti Ilva è pesantissima: associazione a delinquere tesa al controllo dell’emissione di provvedimenti autorizzativi nei confronti della fabbrica in modo da “consentire la prosecuzione di una attività produttiva” sfociata poi in un disastro ambientale di proporzioni epocali, nell’avvelenamento delle sostanze alimentari e nella pratica omissione di qualsiasi forma cautelativa sui siti produttivi.
Fabio Riva dovrà anche difendersi in concorso con Lorenzo Liberti, ex consulente della procura dall’accusa di “corruzione in atti giudiziari”, tramite versamento di una tangente tesa all’ammorbidimento di una perizia. Le investigazioni hanno stabilito la piena consapevolezza con cui gli accusati avrebbero continuato a consentire l’emissione di sostanze nocive, determinando di conseguenza un gravissimo pericolo per la salute pubblica, sfociato nel decesso e nell’insorgenza di una lunga serie di patologie tra lavoratori e popolazione.
Le tappe della vicenda Ilva:
Il processo sarà l’ultima tappa di una vicenda iniziata il 26 luglio 2012, quando la procura di Taranto, aveva disposto il sequestro dell’intera area a caldo dello stabilimento siderurgico, impedendone l’utilizzo.
In quella occasione erano stati disposti gli arresti domiciliari per otto persone, tra le quali il patron dell’Ilva, Emilio Riva, il figlio Nicola e l’ex direttore di stabilimento Luigi Capogrosso. Un provvedimento che aveva spinto ben 15mila lavoratori dell’Ilva a manifestare in piazza al fine di difendere un posto di lavoro messo a rischio dalle inchieste. Reazione che aveva spaccato i sindacati e dato il via ad un confronto estremamente teso tra il mondo politico e l’Associazione Nazionale Magistrati.
Il 7 agosto del 2012, il collegio del Riesame aveva provveduto a confermare gli arresti domiciliari per Emilio Riva, il patron dell’Ilva, e per il figlio Nicola, approvando invece la facoltà d’uso degli impianti.
In pratica gli impianti rimanevano sotto sequestro, ma potevano essere nuovamente utilizzati a patto di rimuovere le condizioni che ne avevano fatto un pericolo per i lavoratori dell’area e per le popolazioni delle aree circostanti. A garantire la sicurezza i custodi giudiziari, chiamati anche a realizzare ogni misura tecnica necessaria al fine di riportare sotto controllo la situazione di pericolo incombente.
Proprio per rendere possibile la bonifica il Governo, la Regione e gli enti locali avevano poi sottoscritto un accordo nell’ambito del quale erano previsti interventi per complessivi 336 milioni.
Dal sequestro ai ricorsi:
Il 26 novembre del 2012 erano quindi arrivate altre due ordinanze di custodia cautelare per Emilio Riva, il figlio Fabio, Girolamo Archinà e Lorenzo Liberti. Un provvedimento accompagnato da un decreto con il quale si disponeva il sequestro di prodotti finiti e semilavorati sulle banchine dell’Ilva, realizzati nella fase in cui gli impianti erano sotto sequestro e senza facoltà d’uso.
Il 10 dicembre 2012 la Procura aveva poi chiesto un mandato di arresto europeo per Fabio Riva, latitante, mentre diciassette giorni più tardi aveva fatto ricorso alla Corte Costituzionale contro il decreto che permetteva all’Ilva la commercializzazione dei prodotti sequestrati il 26 novembre. Ricorso respinto il 9 aprile del 2013 dichiarandolo in parte inammissibili e in altra non fondato.
Il 24 maggio del 2013 Il gip Todisco aveva invece disposto il sequestro per un equivalente di 8,1 miliardi di euro in beni, denaro e quote societarie, nei confronti di Riva Fire e Ilva, salvaguardandone però la produzione. Si tratta della cifra che il gruppo Riva avrebbe risparmiato con il mancato adeguamento ambientale degli impianti a partire dal 1995, anno in cui aveva acquisito l’Italsider.
Un atto annullato dalla Cassazione il 20 dicembre, disponendo la restituzione dei beni. Poco meno di due mesi prima, il 30 ottobre, la Procura aveva intanto notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari ai 53 indagati.
Il decreto Terra dei Fuochi:
Il 5 febbraio 2014 era invece stato approvato il decreto sulla Terra dei fuochi, dedicato nella parte finale all’Ilva, per la quale si prefigurava il reperimento delle risorse necessarie all’adeguamento ambientale e all’applicazione dell’AIA (Autorizzazione integrata ambientale) tramite un aumento di capitale, la cessione delle azioni e lo sblocco dei beni sequestrati.
Nel frattempo a giugno 2014 si tiene l’udienza preliminare del processo: udienza che viene bloccata poichè gli avvocati di alcuni imputati, compresi i Riva, richiedono il trasferimento del processo presso altra sede. A Taranto, è questa la tesi, non ci sarebbero condizioni per un processo equilibrato. La richiesta viene rigettata dalla Cassazione e il procedimento viene mantenuto a Taranto.
Udienza dopo udienza si è arrivati così alla data del 23 luglio 2015 con la richiesta di 47 rinvii a giudizio. Con questa decisione della Procura inizia la fase finale di una vicenda che, secondo alcuni, potrebbe rappresentare il processo più clamoroso nella storia repubblicana.