Quali attività chiudono:
In quest’annus horribilis del commercio è impossibile aprire un’attività commerciale. Spiegar tutto con la parola “crisi” è troppo riduttivo. La mancanza di sostegno del governo ed i costi insostenibili sono le due zavorre più pesanti.
I costi di gestione si sono triplicati fra affitti elevatissimi (canoni anche di 10.000 al mese), concorrenza straniera sui prezzi, maggior assortimento dei centri commerciali e minori acquisti dei clienti. Se nel capoluogo lombardo chiudono 6 negozi al giorno, su scala nazionale il numero più accreditato è di 167.
Risultati registrati dalla Confesercenti nel primo bimestre 2013: spariti, su base nazionale, 10.000 negozi da inizio anno e il numero di chiusura delle attività ha superato le nuove aperture dei punti vendita. Sono i peggiori dati degli ultimi vent’anni e le previsioni per fine anno abbozzano a un saldo negativo di 60.000 imprese chiuse.
Quali categorie crollano e quali invece, paradossalmente crescono a dismisura? A picco manifatturiero (2%), immobiliare (7,7%), attività artistiche, sportive e intrattenimento (10,3%), infine le attività sanitarie e quelle di assistenza sociale (12,7%). In ascesa alberghiero e ristoranti (+4,2%), servizi alle imprese, settore viaggi (+7%), commercio ambulante oppure via web, consulenze direzionali, elettricità, gas e telefonia (6,8%).
Più che parlar di stagnazione, il termine più appropriato sarebbe ecatombe numerica. Come afferma il presidente di Confcommercio Sangalli urgono politiche per ridurre gli aggravi fiscali verso compratori e commercianti, dare il via a politiche di rilancio dei consumi e del mercato interno, intervenire sul canone.
Fisco, burocrazia e niente credito alle imprese
Ovviamente ogni negozio che lascia incrementa il tasso di disoccupazione; senza attività propria l’ex commerciante ingrossa le fila dei “cerca lavoro” salvo che, a costi sproporzionati, non accetti di spostare la propria attività nei grandi centri commerciali o rinunci al guadagno avventurandosi nell’espediente delle vendite promozionali, dei saldi fuori stagione o degli sconti al 70%.
Come si può dedurre da tutti i dati sopra esposti, la Milano artigiana è coinvolta in una spirale che la strozza: nelle scorse settimane lo stesso presidente di Confcommercio Sangalli aveva sottolineato la necessità di “decisioni immediate su fisco, spesa dello Stato, cattiva burocrazia e credito” aggiungendo che “ogni negozio che chiude, è una luce che si spegne, un pezzo di città che muore”.
E, aggiungiamo noi, qualora l’IVA dovesse realmente aumentare e raggiungere la quota del 22%, Milano (come anche il resto di Italia) più che perdere pezzi di città, rischierebbe il collasso.