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Il lavoro del giornalista? Precario e sottopagato

In Italia il lavoro del giornalista non è consigliabile; un’esasperazione dialettica probabilmente, ma che in quanto tale nasconde un fondo di verità. Abbiamo spesso parlato della situazione dei giornalisti nel nostro paese e di tutte le difficoltà del caso, non ultima quella dell’accesso alla professione o, prima ancora, al praticantato (Diventare giornalisti in Italia: una questione solo per ricchi). Ebbene, le brutte notizie per chi vorrebbe intraprendere la professione della scrittura sembrerebbero non essere finite.
In Italia sarebbero infatti oltre 112mila i giornalisti; tre volte più che in Francia ed il doppio del Regno Unito, tanto per intenderci. Fin qui potrebbe anche non esserci nulla di male o di sbagliato; la questione è che di questo poderoso esercito di scrittori, soltanto il 45% è ufficialmente attivo e, ancor più emblematico, solo 1 su 5 ha un contratto di lavoro dipendente.
Questi i risultati di uno studio condotto da Lsdi (Libertà di stampa e diritto all’informazione) all’interno de ‘La fabbrica dei giornalisti’, l’ aggiornamento del Rapporto sulla professione giornalistica in Italia. Tornando ai numeri, i giornalisti iscritti all’ Ordine in Italia sono oltre 112.000 come detto; nel rapporto si parla di questa cifra come nettamente più alta rispetto ad altre realtà europee anche se, nel concreto, fare un paragone può portare fuori strada.
Nei principali paesi europei infatti, non esiste un ordinamento professionale quale l’ordine dei giornalisti italiano né esistono enti pubblici che governino la professione giornalistica; in Francia per diventare giornalista serve il praticantato in redazione, niente ordine professionale. Così come in Inghilterra, dove sono presenti associazioni private di categoria ma nessun istituto accostabile al nostro ordine professionale dei giornalisti.

 

Giornalisti: la metà sono disoccupati o in nero

Fatta questa doverosa premessa, in rapporto alle altre realtà il numero dei giornalisti in Italia è decisamente troppo elevato; i giornalisti attivi e ‘visibili’, vale a dire quelli con una regolare posizione all’ Inpgi (Istituto di previdenza dei giornalisti), sono meno della metà degli iscritti all’albo.
Ragion per cui, più della metà o non esercita la professione o la esercita in nero, senza alcun riconoscimento (continuando comunque a pagare la tassa annuale all’ Ordine dei Giornalisti). E, a questo punto, il fatto di essere iscritti ad un ordine professionale, verrebbe da dire, è totalmente inutile. Il classico cane che si morde la coda.
Tra l’altro, in materia di giornalisti attivi e ‘visibili’ il numero di lavoratori dipendenti è in sostanziale calo; rispetto al 2008 infatti, il dato è sceso di oltre 5 punti percentuali mentre è salito quello dei lavoratori autonomi (che tuttavia sono profondamente svantaggiati da un punto di vista dei redditi e delle condizioni di lavoro). Si preferisce quindi tentare la strada dell’autonomia non essendoci più sbocchi come dipendenti.
Altra situazione di criticità riportata nel rapporto è quella relativa ad un sostanziale blocco del turn over: i praticanti sarebbero infatti scesi da 1.306 del 2009 agli 868 del 2011, mentre dal 2007 al 2011, prendendo a riferimento i tre maggiori gruppi editoriali presenti (Rcs, Espresso e Mondadori), sono stati tagliati circa 3.300 posti equivalenti al 21% del totale.

 

Un mestiere vecchio e inflazionato:

Quanto descritto sopra sta inevitabilmente portando ad un invecchiamento della professione con uno squilibrio tra attivi e pensionati che pende sempre più dalla parte di questi ultimi. Secondo l’ Inpgi il rapporto tra attivi e pensionati continua a scendere inesorabilmente passando da 2,58 del 2010 a 2,45 del 2011; Casagit (Cassa Autonoma di Assistenza Integrativa dei Giornalisti Italiani) fa presente come attualmente i pensionati siano il 27% dei soci, mentre nel 2008 erano il 22%.
Che si stia assistendo ad un radicale mutamento morfologico della professione del giornalista è fuori discussione; ma il cambiamento dovrebbe essere, come sempre, accompagnato e seguito da normative in grado di rendere meno drastico questo passaggio.
Il rischio è quello di inflazionare ulteriormente una professione ed un settore già congestionati, di assecondare disoccupazione e lavoro in nero, oltre che di continuare ad avere come riferimenti sempre i soliti vecchi tromboni; che poi, a conti fatti, non hanno più troppo da dire.

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